prevenzione disastri climatici
Cambiamento climatico

Prevenzione disastri climatici, le ‘colpe’ del cibo

Se è vero che negli ultimi anni il tema dei cambiamenti climatici è al centro dei dibattiti mondiali e che si sta cercando di affrontare la prevenzione disastri climatici, è altrettanto vero che si è forse finora tralasciato uno dei settori maggiormente responsabili del surriscaldamento globale, quello alimentare.

Il sistema agroalimentare, dalla produzione al consumo, contribuisce al cambiamento climatico con il 35% delle emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto. Soltanto l’industria legata alla produzione di carne e prodotti caseari rappresenta circa il 15% delle emissioni di totali di gas a effetto serra, rendendola di fatto molto più impattante di quella, ad esempio, dei trasporti.

Prevenzione disastri climatici con scelte consapevoli

Non possiamo certamente digiunare per salvare il pianeta, ma possono essere compiute delle scelte, a livello individuale e governativo, che possono ridurre di molto l’impatto ambientale del cibo. Come i cambiamenti legati alla catena alimentare e agricola possono aiutare nella prevenzione disastri climatici? Ad affrontare da diversi anni la questione è Anna Lappé, esperta di sistemi alimentari e agricoltura sostenibile e autrice di diversi articoli e saggi. In un recente intervento pubblicato sul portale civileats.com la studiosa sottolinea come ci sia un’assoluta necessità di ridurre il consumo di metano e la produzione di emissioni inquinanti e di come il cibo giochi un ruolo fondamentale in questo percorso.

L’industria del bestiame nel mirino

Per prima cosa l’industria del bestiame dovrebbe rallentare e soprattutto dovrebbe essere investita da un processo di profondo e radicale cambiamento, a cui possiamo contribuire anche noi, singoli individui, riducendo il nostro consumo di carne e prodotti caseari e compiendo delle scelte più consapevoli. Poi, andrebbe ridotto l’utilizzo di fertilizzanti sintetici da parte degli agricoltori industriali, il cui uso eccessivo rilascia nell’atmosfera un significativo quantitativo di ossido di azoto.

Fermare la deforestazione: il caso dell’olio di palma

Parlare di sostenibilità nella catena del cibo significa chiaramente anche fermare i fenomeni di deforestazione e di distruzione del suolo, come avviene nel caso delle piantagioni di palme in Indonesia e in Malesia. In Italia il caso dell’olio di palma ha avuto una certa eco, che ne ha ridotto l’uso da parte dell’industria, ma in tutto il mondo è una materia prima che continua ad essere prodotta a ritmi forsennati, perché è estremamente economico. L’olio di palma è usato in tantissimi prodotti: dai biscotti alle barrette energetiche passando per il burro di arachidi e altre creme spalmabili. Il compito del consumatore- afferma Lappé- è sicuramente quello di ridurre la domanda di questi prodotti che stanno distruggendo il pianeta, optando per delle alternative più sostenibili che costringeranno l’industria a ripensare le proprie scelte.

Ridurre lo spreco alimentare

Parlare di cibo significa poi occuparsi dello spreco alimentare. Dal 30 al 50% degli alimenti che vengono prodotti finiscono nella spazzatura, il che significa che tutta l’energia e le emissioni provocate dai processi produttivi sono andati a vuoto e che il cibo che si decompone in discarica provoca ulteriori emissioni che contribuiscono al surriscaldamento del pianeta.

Il cibo, secondo i dati del Natural Resources Defense Council (NRDC) rappresenta infatti la maggiore quota di rifiuti solidi che si trovano nelle discariche comunali. Per combattere lo spreco in un’ottica sia sociale sia di prevenzione disastri climatici serve sicuramente una maggiore educazione al valore del cibo ma soprattutto servono interventi governativi volti a regolamentare il settore. La Francia in questo senso è sicuramente il paese che ha mostrato la maggiore sensibilità, con l’approvazione di una serie di normative, come la legge approvata due anni fa che istituisce il reato di spreco alimentare che disincentivano comportamenti scorretti e tentano di guidare l’intera filiera alimentare verso cicli produttivi e distributivi più sostenibili.

Le aziende agricole dovrebbe evolvere verso l’agroecologia

Molto c’è da fare anche sul fronte delle fattorie e delle aziende agricole. In questo senso, secondo Anna Lappé la prospettiva più interessante è rappresentata dall’agroecologia, che prevede l’applicazione di principi ecologici nella produzione alimentare, promuovendo un’interazione fra saperi agricoli tradizionali e scienze agrarie moderne.  Per poter pensare di implementare questi modelli serve chiaramente la collaborazione degli agricoltori che, al 2050, saranno 750 milioni in tutto il mondo e si dovrà investire molto nella formazione e nell’educazione verso processi di coltura a basso impatto ambientale.

Qualcosa si muove…

Sicuramente negli ultimissimi tempi qualcosa si sta muovendo. Basti pensare all’intervento tenuto dall’ex Presidente Usa Barack Obama durante Seeds and Chips, summit sull’innovazione in campo alimentare all’interno della Milano Food City. Obama ha sottolineato la necessità di una collaborazione fra la  comunità scientifica, tecnologica e commerciale per la costruzione di un futuro alimentare migliore per tutti.

Circa un mese fa un gruppo di ricercatori, studiosi e rappresentanti di alcune associazioni hanno pubblicato un lettera sul The Lancet, nota rivista scientifica statunitense di ambito medico, per sollecitare la World Health Organization ad occuparsi maggiormente dell’industria agroalimentare in riferimento alla prevenzione disastri climatici e dell’impatto sulla salute.

…ma non sul fronte dei negoziati sul clima

Dall’altro lato però è impossibile non notare che i principali negoziati sul clima a livello mondiale – noti come COP – hanno finora in gran parte ignorato la questione delle emissioni prodotte dal settore alimentare. Il prossimo COP si terrà a Bonn, in Germania, questo novembre. Speriamo- dice ironicamente Anna Lappé- che questa volta il cibo sarà nel menu.