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Inquinamento

Terreni inquinati? Ecco la bonifica con il fitorimedio

È innegabile che in passato, in Italia, spesso siano state condotte a cuor leggero delle attività industriali dietro alle quali si sono nascoste per tantissimo tempo delle gravi e importanti minacce per l’ambiente. A pagarne il conto più caro sono da sempre i terreni circostanti a queste attività che spesso loro malgrado venivano contaminati da metalli pesanti o altamente tossici o da altri composti nocivi. Ancora oggi, sebbene siano passati in certi casi parecchi anni, questi materiali inquinanti resistono al processo di bonifica e continuano in maniera silenziosa, ma inesorabile, a procurare danni alle terre e agli animali.

Che fare allora?

In questi casi la bonifica con metodi tradizionali prevede la rimozione dal sito del suolo contaminato e una successiva serie di trattamenti chimici, fisici, termici o biologici che estraggono gli elementi inquinanti e li degradano in composti meno pericolosi, e sebbene sia una strada da percorrere non è forse la strada migliore. Esiste qualcosa di meglio? La risposta è sì. Eni sta infatti sviluppando dei processi di bonifica a basso impatto ambientale che siano in grado di eliminare gli agenti inquinanti presenti nel suolo o di ridurli a dei livelli non più pericolosi per la salute.

Come bonificare un terreno inquinato

La ricerca è condotta nell’unità Tecnologie Ambientali del Centro Ricerche per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente in collaborazione con l’Istituto per lo Studio degli Ecosistemi del CNR di Pisa per conto di Syndial, una società Eni che si occupa di risanamento ambientale. Tra le tecnologie di bonifica “sul posto” oggi disponibili merita sicuramente una menzione di merito il fitorimedio. Si tratta di un processo che sfrutta la naturale capacità depurante delle piante per estrarre dal suolo sia i metalli pesanti sia i composti organici.
I meccanismi principali sono due: da un lato, le piante estraggono dal suolo i metalli pesanti e li accumulano nelle radici e nelle foglie, il cosiddetto processo di fitoestrazione; dall’altro, sfruttando la sinergia tra i vegetali e i microrganismi presenti intorno e all’interno delle loro radici, si promuove la biodegradazione dei contaminanti organici in altre sostanze più semplici e meno tossiche.

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Piante accumulatrici di metalli pesanti

Dimostrata l’efficacia di questa tecnologia, si stanno ora definendo dei protocolli di intervento condivisi da Eni e dalle autorità pubbliche preposte alla tutela dell’ambiente e della salute.
La grande biodiversità del regno vegetale e le numerose specie in grado di svilupparsi anche su terreni contaminati e di accumulare metalli pesanti nei loro tessuti rendono la fitoestrazione una valida alternativa ai trattamenti fisici e termici. Sono state individuate specie particolarmente promettenti come il girasole o le piante erbacee comprendenti specie molto diverse tra di loro, quali ad esempio la senape, la rapa e il cavolo, o ancora il salice, il pioppo o il granturco. Si tratta di specie in grado di estrarre e accumulare nelle radici e nelle foglie quantità significative dei diversi metalli, con efficienze variabili dal 35% al 40% a seconda del metallo considerato. È possibile quindi ipotizzare che in un terreno, dopo 4-5 successivi cicli stagionali si possa raggiungere il 100% di fitoestrazione della frazione metallica biodisponibile.

Un batterio per accelerare la bonifica

Questi test hanno anche dato risalto al ruolo giocato dai microrganismi rizosferici. Il processo di estrazione è stato supportato e coadiuvato dall’azione di ceppi batterici metallo-tolleranti, cioè che possono sopravvivere alla presenza di quei particolari metalli. I microrganismi hanno mostrato di possedere proprietà di promozione della crescita vegetale: aggiunti al terreno seminato con le diverse piante, hanno permesso di migliorare significativamente le prestazioni dei vegetali, sia come quantità di biomassa prodotta, sia come resa di fitoestrazione. Questa è aumentata del 40-50% rispetto alle prove senza microorganismi aggiunti, raggiungendo efficienze fino al 60% della frazione metallica biodisponibile in una stagione. Questo risultato può consentire di raggiungere gli obiettivi della bonifica in tempi molto più rapidi. Il risultato finale è un recupero ambientale efficiente, sostenibile e a costi ridotti rispetto alle convenzionali tecniche chimico-fisiche. Ma c’è di più: al processo di bonifica del suolo si può associare la valorizzazione a scopi energetici della biomassa prodotta bruciando periodicamente le piante in modo controllato per produrre energia termica. E non finisce qui: se il terreno è inquinato da metalli pesanti, questi, una volta concentrati dalle piante, possono essere recuperati dalle ceneri delle piante stesse permettendo di riutilizzarli (phytomining).

Una tecnologia che non disperde nulla

La tecnologia Eni, quindi, permette di evitare opere di bonifica inquinanti per sé stesse, riqualificare i siti contaminati, produrre energia da fonti rinnovabili e come se non bastasse di recuperare i metalli. Una specie di grande legge di Lavoiser applicata ai terreni bonificati e in cui nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma.

In collaborazione con Eni