Industria sostenibile della moda: rolls of colourful threads (foto: freegreatpicture.com)
Green economy

Fashion Revolution, l’industria sostenibile della moda

La fast fashion industry è inquinante e poco etica. La Fashion Revolution fa conoscere l’industria sostenibile della moda. I consigli per diventare un/a fashion rivoluzionario/a e alcuni brand di moda sostenibile.

Fast fashion industry

Negli ultimi anni c’è stata una forte crescita dell’industria della moda. Secondo una ricerca di McKinsey & Company, la produzione tessile è raddoppiata dal 2000 al 2014 a causa dell’abbassamento dei costi di produzione, dell’ottimizzazione produttiva e della crescente domanda, soprattutto dalle nuove classi medie dei paesi in via di sviluppo.

Non sono solo aumentati i consumatori: in media i capi d’abbigliamento durano la metà rispetto a 15 anni fa. Alcuni, addirittura, scartano un vestito dopo averlo indossato 7/8 volte. Il termine fast fashion industry, ossia industria della moda veloce, indica il settore dell’industria dell’abbigliamento che produce collezioni ispirate all’alta moda a prezzi contenuti e rinnovate in tempi molto rapidi. Marchi come H&M, Zara, Mango, Topshop o Benetton producono fino a 10/12 collezioni ogni anno.

Gli effetti della fast fashion industry

Questa industria però è la più inquinante dopo quella petrolifera. Il cotone è la fibra tessile usata per il 30% della produzione mondiale di abbigliamento. Per fabbricare un kg di vestiti in cotone si consumano 11.000 litri d’acqua (oltre a pesticidi e fertilizzanti) e si emettono 23 kg di anidride carbonica nell’atmosfera. E ogni anno, vengono buttati via 73 milioni di tonnellate di abiti.

Se l’80% dei mercati emergenti della fast fashion industry raggiungerà i consumi pro-capite dei paesi sviluppati, ci sarà un aumento del 77% delle emissioni di CO2, del 20% di consumo d’acqua e del 7% di sfruttamento del terreno entro il 2025, sempre secondo la ricerca di McKinsey & Company.

Inoltre l’industria della “moda veloce” è poco etica: dietro una t-shirt a basso costo ci sono operai sottopagati (per la maggior parte donne) che lavorano in condizioni di scarsa sicurezza e salute in paesi in via di sviluppo come Cina, India, Messico o in Sud America.

fashion store (foto: https://pixabay.com)

Fashion Revolution: l’industria sostenibile della moda

Il 24 aprile 2013 ci fu il crollo del Rana Plaza, edificio commerciale di 8 piani a Dacca, la capitale del Bangladesh. Il cedimento causò 1.129 vittime e qualche migliaio di feriti. L’edificio conteneva fabbriche tessili, negozi, una banca e appartamenti. E’ considerato il più grave incidente mortale avvenuto in un fabbrica tessile, nella storia moderna.

La tragedia del Rana Plaza ha ispirato la nascita di Fashion Revolution organizzazione non profit dedicata alla moda etica e sostenibile. Ogni anno dal 24 al 30 aprile gli eventi della Fashion Revolution Week promuovono una moda più sicura, pulita e trasparente in tutta la sua filiera. Un movimento partito dalla Gran Bretagna e diventato globale, che muove le persone ad essere più informate, perché i consumatori sono i primi ad avere il potere per un cambiamento positivo.

Attraverso la campagna su Twitter e Facebook #whomademyclothes è possibile chiedere ai brand più trasparenza, facendosi un selfie con la t-shirt al contrario e l’etichetta ben visibile. Sul sito di Fashion Revolution si può fare una donazione, raccontare la storia d’amore con un capo d’abbigliamento, scaricare le guide #Haulternative: a guide for fashion lovers per ridare nuova vita a vecchi abiti e How to be a fashion revolutionary (“Come essere un rivoluzionario della moda”).

Nel 2015 Fashion Revolution ha fatto un esperimento sociale attraverso il video The 2 Euro T-Shirt – A Social Experiment, registrato a Berlino (Germania).

Il video, visto da oltre 7 milioni di persone, ha permesso di diffondere una maggior consapevolezza nei consumatori. Produttori, aziende e coltivatori di cotone possono rispondere con #imadeyourclothes raccontando la loro storia e condividendola con i consumatori.

I risultati del 2016

La Fashion Revolution Week del 2016 ha visto 70.000 persone domandare ai brand di moda #whomademyclothes raggiungendo 156 milioni di visualizzazioni organiche. E oltre 1000 brand e distributori (tra cui 300 grandi aziende) hanno risposto, con un incremento del 448% rispetto al 2015. La Fashion Revolution Week ha raggiunto 92 paesi ma c’è ancora tanta strada da fare.

I consigli di Marina Spadafora (Auteurs du Monde)

Marina Spadafora, direttrice creativa di Auteurs du Monde (la linea di moda etica di Altromercato) è la coordinatrice italiana della Fashion Revolution Week. I suoi consigli su come diventare un/a fashion rivoluzionario/a sono:

  1. Informati, sii più consapevole di ciò che indossi – “Seguire progetti come Project Just, ad esempio, permette di conoscere l’impatto ambientale dei brand”, dice.
  2. Compra meno ma di qualità – “Le cose a basso costo durano poco e spesso sono realizzate male”.
  3. Preferisci il local al global – “Vai nei mercatini, dagli artigiani”.
  4. Riscopri il fascino della sartoria – “Restituire vita a vecchi abiti e valorizzare ciò che si indossa è un’esperienza molto bella”.

Brand di moda sostenibile: Wijld e Reebok

L’alternativa è possibile: nuovi marchi di moda eco-sostenibile si stanno facendo conoscere. Un esempio è Wijld, start-up tedesca che produce WoodShirts, t-shirt dal legno in modo equo e certificato. (Sul loro e-commerce è possibile scegliere tra t-shirt con design creativi e per ogni ordine ricevuto pianteranno un albero). Anche i grandi brand si stanno muovendo verso una moda eco-sostenibile: Reebok, ad esempio, è pronta a lanciare le scarpe biodegradabili prodotte con cotone e mais.

Il sentiero è segnato, la strada è lunga ma l’industria sostenibile della moda è in crescita. Noi consumatori con la consapevolezza abbiamo maggior potere e la scelta è nelle nostre mani.