greenwashing
Green economy Riciclo

Greenwashing: il caso delle bustine del tè di Tesco

La sostenibilità sta diventano per fortuna un tema sempre più attuale. Sempre più persone cercano quindi di ridurre il proprio impatto ambientale a livello quotidiano, scegliendo per esempio di muoversi a piedi o con mezzi non inquinanti, di ridurre per quanto possibile l’uso di energia elettrica, di consumare meno carne e pesce, di riciclare di più, e via dicendo. La ricerca di una maggiore sostenibilità si traduce anche in un aumento dell’attenzione negli acquisti, con il consumatore che tende dunque a premiare produttori che dichiarano di rispettare l’ambiente. Il problema, però, è che spesso le aziende mostrano un ambientalismo che è solamente di facciata, dimostrando un attaccamento alla sostenibilità che in realtà è falso. Si parla in questi casi di fenomeni di greenwashing: vediamo di cosa si tratta, per poi mostrare un esempio specifico che, come protagonista, ha la nota catena di negozi alimentari Tesco.

Cos’è il greenwashing

Iniziamo con una definizione di greenwashing: con questo termine si indica una pratica ingannevole, impiegata come strategia di marketing, tesa a dimostrare un impegno parzialmente o completamente falso di un’azienda nei confronti dell’ambiente. L’obiettivo è quello di conquistare il favore dei consumatori attenti alla sostenibilità, così da aumentare le vendite pur non apportando nel concreto delle reali modifiche al proprio metodo di produzione. Questo comportamento scorretto è sempre più diffuso, tanto da spingere per esempio il Regno Unito a incaricare l’ente governativo Competition and Markets Authority (Cma) del compito di monitorare attentamente la situazione, per andare a multare pesantemente le aziende che si macchiano di greenwashing.

Il caso delle bustine biodegradabili

Un caso emblematico di greenwashing è quello che sta coinvolgendo il gigante britannico della vendita di alimentari Tesco, che conta quasi 7.000 punti di vendita nel mondo: i suoi punti di vendita sono presenti in tantissimi paesi, dal Regno Unito alla Polonia, dalla Cina fino agli Stati Uniti. A far parlare di greenwashing sono nello specifico le bustine di tè definite come biodegradabili dal marchio. Tutto è nato da un esperimento di Alicia Mateos-Cárdenas, dell’University College Cork, che ha per l’appunto provato a sepellire delle bustine di Tesco Finest Green Tea dichiarate come biodegradabili, per poi controllare le condizioni di questi filtri dopo 3,6 e 12 mesi. Nessun cambiamento è stato notato, il che proverebbe di fatto la non biodegradabilità di queste buste realizzate con della bioplastica definita PLA. Di fronte a queste accuse, Tesco ha ribattuto spiegando che le bustine in questione non sono né pensate né indicate per essere inserite nel compost domestico né per essere sepolte nel terreno: si tratta di bustine che devono essere compostate a livello industriale, e quindi passando per l’apposita raccolta di materiale biodegradabile.

Secondo i ricercatori, però, dichiarare queste bustine come biodegradabili sarebbe ingannevole: l’etichetta più corretta sarebbe infatti “compostabile”. Alicia Mateos-Cárdenas parla esplicitamente di pratiche di greenwashing da parte di Tesco proprio per questo uso improprio del termine biodegradabile: ipotizzando che un consumatore medio di tè consumi 2 tazze al giorno, questo equivarrebbe ad avere 700 bustine nel proprio compost domestico senza che il processo abbia effettivamente luogo. E questo, stando a Mateos-Cárdenas, renderebbe le affermazioni di Tesco «non solo false, ma anche fuorvianti e prive di fondamento».

Sull’onda di segnalazioni di questo tipo, Mark Miodownik dell’University College London ha analizzato diverse plastiche presenti sul mercato e vendute come “compostabili a livello domestico”, per scoprire che nel 60% dei casi questi materiali non subiscono il processo di degradazione nell’arco di 6 mesi. Ne risulta quindi che questi materiali «sono parte del problema, non la soluzione» spiega Miodownik, per poi aggiungere che «ci sono aziende innovative là fuori che cercano di fare la differenza, ma che non usano il termine biodegradabile perché sanno che è il codice usato per il greenwashing».