Big AG
Agricoltura

Big AG, la lobby delle industrie agricole

In Italia sentiamo parlare sempre più spesso di Big Data per indicare un grosso insieme di dati su un determinato argomento o di Big Pharma, ovvero le grandi multinazionali della farmaceutica. Non si è mai parlato però di Big AG, dove AG sta, negli Stati Uniti, per Agricoltura. Big AG è quindi il cartello delle grandi industrie agricole che in questo preciso periodo storico sono al centro dell’attenzione per due fondamentali motivi apparentemente contrastanti. Da una parte stanno intavolando un discorso col Congresso per ottenere più libertà di movimento e di decisione e dall’altra non possono non vedere la grande opportunità che si cela dietro al mercato del biologico in costante crescita. Entriamo ora nel dettaglio, osservando più da vicino un tema da sempre caro a green.it.

Un cartello, nel futuro

Negli Stati Uniti, cinque delle sei principali società che producono e vendono semi e prodotti chimici per gli agricoltori stanno valutando delle offerte che potrebbero portarle a lasciare il mercato nelle mani di tre sole aziende che diventerebbero a quel punto leader globali. Queste manovre potrebbero innescare una serie di cambiamenti strutturali alle fondamenta del sistema alimentare e avere un impatto su tutti gli americani, anche se non comprano direttamente semi, fertilizzanti o diserbanti, in qualità di consumatori finali. Le grandi aziende, si sa, parlano costantemente con i vertici politici e cercano di influenzarli. Come è facile ipotizzare, l’eventuale riduzione del numero di aziende spianerebbe la strada ai grandi gruppi che farebbero cartello e in un certo senso obbligherebbero i player politici ad ascoltarli e con buon probabilità ad accontentarli.

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Big AG è il cartello delle grandi industrie agricole al centro dell’attenzione per due fondamentali motivi apparentemente contrastanti.

Agricoltura e politica. Quale futuro?

Forse il più grande problema“, dice Pat Mooney, direttore esecutivo del canadese Gruppo ETC, un think tank che monitora l’agrobusiness e le tecnologie agricole, “è che i politici di oggi non hanno alcuna percezione della lavorazione del cibo o della sua provenienza“. Ma ci sono alcune eccezioni al Congresso, come il senatore Chuck Grassley, un repubblicano dell’Iowa proveniente da una famiglia di agricoltori che teme che a determinati movimenti societari possano aumentare i costi per gli agricoltori che già sono in perenne lotta per realizzare un profitto. Grassley presiede il Comitato Giustizia del Senato e ha recentemente tenuto udienze per creare un registro pubblico su ciò che le aziende dicono e su ciò dichiarano di mettere in atto. Ascoltati dal Comitato uno dopo l’altro, i leader di Dow, DuPont, Syngenta e Monsanto hanno garantito che nessun cambiamento ostacolerà la concorrenza o lo sviluppo di nuovi prodotti. Occorre aspettare, come spesso accade, per avere un risposta.

Sempre più Bio

Dall’altro lato Big AG deve fare i conti con la crescita della richiesta di cibo biologico. E non può voltare le spalle a quella che potrebbe essere la nuova gallina dalle uova d’oro per l’industria alimentare americana. Più 11 per cento di aumento rispetto allo scorso anno. Questo è l’incremento dell’industria del biologico, per un totale di 43 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.
Secondo l’Organic Trade Association, il mercato del biologico cresce di circa quattro volte rispetto ai tradizionali prodotti alimentari. Per questo i supermercati e i produttori di alimenti difficilmente possono tenere il passo con la domanda, in particolare per i prodotti caseari e per i cereali. Se l’offerta, però, riuscisse a star al passo con la domanda, le vendite schizzerebbero a dei livelli inimmaginabili.

Un passaggio non così facile

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Big AG è il cartello delle grandi industrie agricole al centro dell’attenzione per due fondamentali motivi apparentemente contrastanti.

Ma allora perché gli agricoltori non si convertono tutti al biologico? In realtà già in tanti lo stanno facendo, ma è un processo complicato e costoso che richiede tre anni di transizione dei terreni prima che un coltivatore convenzionale possa iniziare a commercializzare (con certificato di qualità) i suoi prodotti biologici. Ogni contadino potrebbe scegliere di avviare l’agricoltura biologica, ma dovrebbe continuare a vendere prodotti a prezzi convenzionali fino a quando tutte le tracce di precedenti pesticidi e uso di erbicidi sono andati.
In base all’ultimo conteggio del governo, solo l’1 per cento dei terreni agricoli negli Stati Uniti è attualmente certificato come biologico, per cui vi è un grande potenziale per la transizione e un margine di guadagno davvero spropositato. I prodotti biologici costano, in media, il 47 per cento in più rispetto al non biologico, ma gli agricoltori devono essere disposti a investire denaro e tempo prima di raggiungere questa condizione.

 

Un aiuto da Big Ag

Ed è qui che subentra Big AG; al fine di incoraggiare gli agricoltori a fare il passaggio alcuni produttori alimentari offrono incentivi finanziari per compensare le sfide del periodo di transizione di tre anni.
Kashi, una società del gruppo Kellogg, ha creato un certificato di transazione che può essere adottato da qualsiasi azienda per etichettare i prodotti realizzati da aziende agricole che stanno subendo il processo di transizione. David Denholm, CEO di Kashi, confida che “Molti consumatori chiedono un aumentato dei prodotti biologici, ma non sono a conoscenza delle sfide che devono affrontare gli agricoltori nella transizione“.
Kashi ha rilasciato la seguente infografica per spiegare al consumatore questo processo di trasformazione:

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Infografica – La Transizione da agricolo a biologico

Fa piacere sapere che Big AG sta seguendo e facilitando il flusso dell’organico, ma nulla si fa per nulla ed è quindi doveroso precisare che spesso molte aziende agricole che vengono aiutate nel periodi di transizione devono accettare dei contratti di esclusiva a lungo termine. Si tratta di una scommessa sicura, stando alle statistiche di crescita del mercato biologico, ma se gli agricoltori sono bloccati in contratti a lungo termine, in un certo senso si falsa il mercato rendendo difficile se non impossibile l’ingesso di nuovi player che possano garantire la diversità dell’offerta.