Trivellazioni nell'Artico
Inquinamento

Eni, Trump e le trivellazioni nell’Artico: cerchiamo di capirci qualcosa

Non è facile capire le motivazioni che hanno spinto Donald Trump a riaprire le rischiosissime esplorazioni petrolifere nell’Artico. Eppure è proprio così: nonostante lo stop alle trivellazioni nell’Artico di Barack Obama, il tycoon ha voluto riaprire quel capitolo particolarmente oscuro della storia dell’estrazione di greggio. E, particolare non da poco per noi italiani, l’unica realtà imprenditoriale ad aver accettato la sfida di Trump è stata l’Eni. Ma perché andare a rischiare così grosso riprendendo le trivellazioni nell’Artico? E perché proprio l’Eni e nessun altro ha voluto approfittare di questa possibilità?

Il riavvio delle trivellazioni nell’Artico – ma si erano davvero fermate?

Dunque, per capire cosa sta succedendo con le trivellazioni nell’Artico bisogna andare un po’ indietro nel tempo, quando nel 2016 Barack Obama vietò l’estrazione degli idrocarburi. É da sottolineare che questa interruzione delle trivellazioni nell’Artico sotto la bandiera Usa non era dettata unicamente da motivi ambientali: le concrete difficoltà delle trivellazioni artiche e il calo del prezzo del petrolio sulle borse internazionali, infatti, erano fattori più che sufficienti per vietare ulteriori lavori. Ma questo divieto non era esteso alla totalità dell’Artico: ne restavano per esempio estromesse le concessioni dell’Eni, la quale tra l’altro già dal 2011 sta lavorando al pozzo Nikaitchuq. Come ben sappiamo, già durante la campagna elettorale Trump non aveva risparmiato aspre critiche alle politiche ambientali intraprese dall’amministrazione Obama. Poco dopo essere arrivato al potere, dunque, Trump ha iniziato a riaprire le vie legali per le trivellazioni dell’Artico e Eni, avendo intuito il cambio di rotta, ha presentato a marzo una richiesta per iniziare a trivellare nel mare di Beaufort, il quale si estende a nord dell’Alaska e dello Yukon, e ad occidente delle isole artiche canadesi.

trivellazioni nell'articoPerché Shell e Chevron hanno desistito nell’Artico

Nel frattempo, seguendo le disposizioni di Trump, il Boem (Bureau of ocean and energy management) ha realizzato un piano quinquennale, così da dare il via libera alle trivellazioni nell’Artico – solo a scopo di esplorazione e solo in inverno, stagione in cui ci sono meno orsi polari e balene. Prima di spiegare perché proprio Eni ha accettato la sfida dell’amministrazione Trump è meglio spiegare perché nessun altro ha fatto altrettanto. Bisogna infatti sottolineare il fatto che le trivellazioni in Artico non sono per nulla facili, anzi: l’errore, a queste latitudini, è davvero dietro l’angolo. Il fatto di lavorare nella lunga notte dell’estremo nord, poi, non fa che peggiorare la situazione, aumentando ancora di più le probabilità di drammatici incidenti e di sversamenti di petrolio greggio in quell’ambiente delicatissimo e già oggi appeso ad un filo che è la regione artica. Non a caso, la Royal Dutch Shell, la multinazionale olandese operante nel settore petrolifero, nell’energia e nella petrolchimica, dopo anni di incidenti si è ritirata dalle trivellazioni nell’Artico nel 2015: a farla desistere sono stati delle stime bassissime, oltre che una clamorosa falla in una delle proprie navi petrolifere. Lavorare al buio e al freddo è già difficilissimo, e se a questo si aggiunge anche l’opinione pubblica poco favorevole, la resa scarsa dei lavori ed i costi elevatissimi per la messa in opera delle trivellazioni, la scelta della Shell sembra davvero quello più ovvia. Anche la Chevron, compagnia petrolifera statunitense, si è arresa e ha lasciato i territori artici. É semplice: affrontare delle emergenze di tipo ambientali è difficile in qualsiasi contesto, figuriamoci nella regione Artica. Ma allora perché l’Eni ha deciso di accettare l’apertura di Donald Trump?

trivellazioni nell'articoDa dove nasce la sicurezza dell’Eni

Ebbene, l’Eni ha già pianificato di iniziare i lavori di trivellazione entro la fine del 2017, utilizzando come base l’isola artificiale di Spy Island, la quale è stata realizzata 9 anni fa proprio per sfruttare il pozzo Nikaitchuq. Estesa meno di mezzo chilometro quadrato, molto vicina alla costa e connessa ad essa con un oleodotto, l’isola di Spy Island sembra assicurare all’Eni un lavoro meno ostico di quello sperimentato dai concorrenti. Del resto proprio l’Eni ha alle proprie spalle delle trivellazioni altrettanto – se non più – estreme, a partire da quella sulla piattaforma norvegese Goliat, oltre il 70° parallelo. Su queste basi, l’Eni ha dichiarato che «procederà alle esplorazioni petrolifere nel mare de Beaufort, in Alaska, solo in condizioni di sicurezza, in modo graduale e ponderato, e minimizzando l’impatto ambientale». È forse la sicurezza dimostrata dal brand a sei zampe a fare scaturire dal direttore del Boem una dichiarazione che sembra davvero inverosimile a due anni dagli Accordi di Parigi: «Sappiamo che ci sono vaste riserve di petrolio e gas sotto al mare di Beaufort, e non vediamo l’ora di lavorare insieme a Eni per sfruttare questo potenziale di energia».

Il ricorso in tribunale del Center for Biological Diversity

Ovviamente le reazioni delle organizzazioni ambientaliste statunitensi e internazionali non si sono fatte aspettare. Su tutte si è fatta sentire l’organizzazione no profit degli Usa Center for Biological Diversity, che ha presentato immediatamente un ricorso legale, affermando che a quelle latitudini «una perdita di greggio farebbe danni incredibili e sarebbe impossibile da ripulire». A rendere ancora più paradossale la faccenda è il fatto che le concessioni Eni non venivano sfruttate da 10 anni, e che erano destinate a scadere proprio quest’anno.